Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, questa lettera di Francesco Pulejo, cooperante espatriato di Oxfam Italia in Libano.
Viaggiando per il deserto del nord del Cile, dove si trova la cittadina di Copiapò diventata famosa in questi giorni per la vicenda dei 33 minatori rimasti imprigionati sottoterra, ci si chiede come sia possibile vivere in un posto del genere. Non si vedono alberi, né acqua, né campi coltivati. Solo montagne brulle, distese sconfinate di polvere e pietre a perdita d’occhio. La ricchezza sta nel sottosuolo, ed è enorme, tanto da fare del Cile il primo produttore mondiale di rame ed uno dei primi di oro.
Questo tesoro nascosto ha attirato a partire già dai primi anni del Novecento grandi investimenti dai paesi ricchi, le cui multinazionali ancora oggi, approfittando di regimi fiscali vantaggiosi, ricavano enormi profitti dall’estrazione di questi minerali. L’industria estrattiva rimane di gran lunga la prima fonte di ingresso per il paese, ed il prezzo del rame sui mercati internazionali è il vero indicatore da cui dipende l’intera economia del paese. I servizi sociali, le pensioni, la scuola pubblica, l’esercito, sono in gran parte finanziati dai guadagni dell’industria mineraria, che è regolata da un ministero ad hoc. Gli enormi progressi tecnologici dell’ultimo secolo hanno permesso lo sviluppo di professioni molto specializzate, e sicuramente l’ingegnere minerario è uno dei lavori meglio retribuiti e con maggiore stabilità.
Ma dove ci sono miniere, naturalmente, ci sono soprattutto i minatori. Anche Che Guevara, nel suo viaggio per il Sudamerica immortalato dal film “ I diari della motocicletta”, incontra, proprio vicino a Copiapò, una coppia di minatori, e quell’incontro sarà uno dei più intensi ed emotivi per il giovane che durante il suo viaggio inizia a prendere coscienza delle condizioni di ingiustizia e oppressione in cui è costretta a vivere la gran parte della popolazione del continente. La storia del Cile è attraversata e profondamente influenzata dalle vicende dei minatori, immigrati al nord da tutto il paese a partire dagli anni ’20, vittime di abusi ed addirittura di repressioni sfociate in massacri, ma sempre all’avanguardia nella lotta per i loro diritti e per migliori condizioni di lavoro. Le loro lotte e la loro coscienza di classe ne fecero uno dei pilastri dell’Unidad Popular di Salvador Allende, quando conobbero il momento di maggior riconoscimento del loro ruolo nella società. Durante la terribile dittatura di Pinochet che seguì, pagarono un prezzo altissimo in diritti negati e vite spezzate.
In questi mesi le televisioni di tutto il mondo hanno mostrato i volti dei 33 minatori bloccati a 700 metri di profondità. Abbiamo visto in diretta come sbucavano dall’oscurità per rassicurare i loro familiari e fare loro coraggio. “Stiamo bene, siamo tranquilli, non abbandonateci”, ripetevano. Erano frasi intrise di speranza, ma anche di rassegnazione e fatalismo. I minatori sapevano che il crollo della galleria che poteva ucciderli e li ha tenuti imprigionati per oltre 2 mesi si deve ad una negligenza dell’azienda. Sapevano che per i primi 15 giorni dopo il crollo nessuno ha dato l’allarme o si è mobilitato per aiutarli, pensando che non ci fossero speranze di riscattarli. Addirittura i proprietari della miniera, durante le prime settimane della loro prigionia sotterranea, stavano negoziando con il governo affinché questo si facesse carico dei loro stipendi, dato che nei mesi successivi non sarebbero stati “produttivi”.
Finalmente però l’attenzione mediatica del mondo intero, ed un governo in crisi di consenso che ha trovato un’ottima occasione per migliorare la propria immagine, hanno reso possibile una mobilitazione enorme ed un’operazione che tutti hanno definito “un miracolo”.
Le immagini dei minatori salvati uno ad uno, che finalmente riabbracciano i loro familiari in diretta tv, ha emozionato il mondo. Tra tutte le frasi che ho sentito pronunciare da “los 33”, ce n’è una che mi ha colpito particolarmente, per la sua lucidità e chiarezza: “Non trattateci come delle celebrità, siamo solo dei minatori”.
Questo è il messaggio più importante di questa vicenda, finita per fortuna nel migliore dei modi. I volti che abbiamo visto quotidianamente apparire nei nostri televisori ci hanno fatto tornare alla realtà. Il lavoro di questi minatori, durissimo e pericoloso nonostante i progressi tecnologici, era invisibile. Solo una casualità come il crollo di una galleria lo ha riportato in prima pagina, ed ha rimesso al centro dell’attenzione il loro sfruttamento, le difficili condizioni di vita, e la dinamica che non sembra essere molto cambiata negli ultimi 100 anni, considerando i minatori come l’ultimo anello di una catena che arricchisce pochi con il lavoro di molti.
Francesco Pulejo